È la tavola di mezzo, quella dedicata al Purgatorio, il punto centrale della figurazione della Divina Commedia che Mario Ritarossi ci offre in questi suoi tre dipinti. Il sentiero che lievemente si innalza muovendo da una traccia ancora oscura, ma che si apre a un verde sempre più pulito; il cielo investito dal riflesso di una luce, che si insinua dal cerchio interrotto del fogliame; un tratto di cammino che si indovina appena, dopo aver riconquistato il piano dell’orizzonte verso cui si affigge l’occhio di chi guarda, promessa di una via più lieve di quella che si sta per lasciare: questi gli elementi semantici su cui l’artista dispone la trama pittorica di quel Terzo luogo che l’immaginario medievale ha prodotto nei suoi laboratori teologici e mistici, solo poco più di un secolo prima della visione dantesca.
Il Purgatorio è il centro del Poema, forse la sua stessa condizione d’esistenza.
Perché, come svela Singleton, si trova nel Purgatorio il cinquantesimo canto dei cento che fanno la Commedia, quello che porta impresso il numero sacro che racchiude la cifra segreta dell’Opera, composta per rinnovare l’atto della creazione.
Perché, come nota Attilio Momigliano, l’atmosfera del Purgatorio è permeata di una “nostalgia insieme terrena e celeste, che unisce in una medesima malinconia le anime che aspirano alla patria celeste e il pellegrino che ha in cuore la lontana patria terrena” ed è perciò il luogo della rivelazione della natura doppia della poesia che intreccia la pena e la speranza.
Perché, come osserva Le Goff, il tempo del Purgatorio, “accelerato e ritardato”, “altalenante tra la memoria dei vivi e l’inquietudine dei morti”, è “tempo ancora legato alla storia e tempo già assorbito dall’escatologia”, immagine quindi del movimento e della stasi.
Il Purgatorio nella sua sospensione dinamica, nel suo sentimento di un’attesa pronta ma non ancora decisa a trascolorare nella gioia, diventa nel dipinto di Ritarossi la chiave di lettura che rischiara la Cantica, ma aiuta a spingersi oltre, fino a penetrare nel grande racconto di una storia comune: quella che parla di una cultura che ha saputo escogitare il modo di tenere ancora un po’ allacciati, dopo la morte, il destino dei defunti e quello dei vivi, a condizionarsi reciprocamente in uno spazio della post-esistenza e della pre-eternità. Il viaggio di Dante è una “metamorfosi definitiva della memoria”, scrive ancora Le Goff, che si conclude con l’oblio del male e il ricordo del bene, rappresentazione “di quanto vi è di immortale nell’uomo”.
Il compimento della mutazione si attua al culmine dell’ascesa del Purgatorio, un passo al di là del punto in cui si ferma il nostro sguardo sulla tavola. È questa possibilità promessa che dà senso all’intero sistema dell’aldilà cristiano, altrimenti fisso in una polarità senza storia e senza svolgimento. Le tre tavole sono ciascuna un discorso sull’estensione della vita oltre la vita. L’inferno è cristallizzato nella figura di un tronco secco e sfigurato, illusoriamente illuminato da una luce, minata da un tono corrusco, sfibrata nel bagliore bruciato del viottolo che si insinua tra rocce umide e nera vegetazione di selva; il purgatorio si avvolge in un vortice, se pure di segno opposto, simile a quello della tavola dell’inferno, e suggerisce il movimento, la trasformazione, la piega ascendente conquistata dal cammino; il paradiso è annunciato dal cielo rossastro della luce fatale e non ancora rarefatta, ma velata nella percezione irretita da una residua e persistente materialità. In quest’ultima tavola, però, il movimento si ferma; l’artista sposta il punto d’osservazione su un piedistallo isolato in primo piano, da cui ci si affaccia su una valle che interrompe l’ascesa.
Il paradiso non è su, è oltre. Non è riconducibile alla coppia terrestre del basso e dell’alto, è una dimensione che non si misura con metri umani. È la grande noia della perfezione. Non contiene il graduale disvelamento della sapienza, frutto della ricerca, ma la sapienza stessa di cui è contenuto e contenente. Per questo la tavola di Mario Ritarossi si ferma un attimo prima, nel punto estremo della metamorfosi. Il suo paradiso non è rivelazione di Dio: è ancora rivelazione dell’uomo.
20 marzo 2004 – Equinozio di Primavera
Tarcisio Tarquini