La fame che abbiamo incontrato e il nostro assoluto culto del pane.
Due storie e, come ricetta, la “PANICCIA” MOLISANA.
Abbiamo avuto la fortuna, nelle nostre famiglie, anche negli anni difficili della ricostruzione dopo la guerra, di non conoscere mai la fame vera. Ci ho pensato in questi giorni quando le immagini trasmesse dell’assalto ai supermercati e degli scaffali rapidamente svuotati, dopo una prima battuta ironica sul forno delle Grucce, mi hanno fatto venire incontro di colpo l’immagine nascosta del Mostro. Perché se pur non vissuta in prima persona l’abbiamo sfiorata, la fame, e continuamente con la scomoda sensazione che potesse abbracciarci. L’abbiamo sempre avuta presente, di faccia davanti a noi, per gli incontri quotidiani con chi ce l’aveva dentro, e scritta nel volto. Quando andavo in montagna con papà incontravamo ragazzini cenciosi che ci si avvicinavano, come abituati a quei gesti silenziosi e toccavano e tiravano il giaccone di papà che si fermava e dava loro metà di quello che aveva portato per noi e allora correvano lontano tutti insieme strappandosi dalle mani l’un l’altro quel poco di pane con la frittata e lo buttavano in gola tenendo il viso in su quasi per allontanarlo il più possibile dalle mani degli altri. E quotidiano era l’affacciarsi timoroso alla nostra porta di persone, soprattutto molto anziane e per questo le più fragili e meste, che non avendo più nessuno che potesse farsi carico di loro venivano a chiederci, non metaforicamente, un tozzo di pane. Quelle voci vergognose lacrimose e flebili le ho sempre nella mente e ogni volta che incontro, o mi scontro con un’ immagine che può rappresentarle, (di colpo) si riattualizzano, mi rimbombano dentro creandomi angoscia. Possono essere anche cose a prima vista non scioccanti e molto diverse tra di loro. Può essere la visione del film “Hunger”. Può essere la lettura del sonetto di Giochino Belli, la Famija poverella – per chi avesse voglia di cercarlo è il n 1677- dove sono racchiuse le struggenti parole, intrise d’angoscia, di una madre che non ha pane da offrire al pianto dei figli. Il suo strazio ti entra dentro e ti svuota e sono forse le parole più disperate che io abbia letto. Morire di fame è forse la morte meno umana, perché è l’urlo del neonato che si sente dilaniato, mangiato dentro dai morsi della propria fame. E la sua memoria è come se ci accompagnasse sempre. Per questo forse ci sono gesti che benedicono il cibo. Per questo da ragazzini ci affrettavamo a baciare il pane che cascava in terra, o che veniva inavvertitamente posato sul tavolo capovolto. E forse è per tutte queste immagini sparse, le puntute sensazioni, che ho parlato di Sacralità del cibo nel mio libretto in un riferimento a Montalbano-Camilleri. E quando Fabio Canessa, fine critico cinematografico e di letteratura, mi chiede che significato dò a quella parola Sacro non so mai cosa rispondere per bene. Forse perché come diceva Simenon, parlando di se stesso a Gide (l’intellettuale più intellettuale del novecento francese) io non sono intelligente e mi trovo sempre in difficoltà con chi lo è perché non riesco con disinvoltura a parlare di un concetto spiegandolo con un altro. Ma lo posso solo raccontare, aggiungo io. Forse è per questo che ho sempre preferito il Vangelo di Luca a quello di Giovanni, per me troppo intellettuale. Il Logos mi confonde, mi affascina la parabola. Non per nulla Giovanni ha per simbolo l’aquila che mi intimidisce con i suoi occhi grifagni e Luca ha il pio bove. E allora devo raccontare. Lo farò con due storie.
PRIMA STORIA. LO SCHIAFFO DI ZIA AMELIA
Quando eravamo piccoli io e i miei fratelli andavamo spesso a Roccamandolfi in casa di zia Amelia, la sorella più grande di mamma e ci restavamo a volte per più di un mese, mia sorella Laura ci fece pure la prima elementare. Zia era un’ottima cuoca, soprattutto chiccaia, e il pane lo faceva in casa , come mamma. Io e i miei fratelli, i cugini e tutti gli altri ragazzini che conoscevo, mangiavamo tutto quello che ci veniva proposto, non eravamo schizzinosi. Era stato facile diventarlo. Una volta che a casa rifiutai pasta e cavolfiore mamma me la ripresentò, uguale uguale e nemmeno riscaldata, per tre giorni di fila dicendomi “Non mi costerebbe nulla darti un’altra cosa, ma se un giorno vai a casa di qualcuno e ti danno da mangiare il cavolfiore e tu lo rifiuti cosa penseranno di me? Che figura ci facciamo io e tuo padre?” D’altra parte l’appetito che avevamo e non ci abbandonava mai avrebbe reso superflua o addirittura fantasiosa la litania che si è sentita in seguito ripetere tutti i giorni all’ora di pranzo a bimbi riottosi “Mangia, pensa a quanti bambini muoiono di fame in Africa”. Per noi non c’era questo bisogno. Però… però nonostante il robusto appetito c’erano un paio di cose per cui nutrivo un’autentica idiosincrasia: le minestre rifatte (i rifreddi si dicono a Alatri) e il pane che non fosse quello fatto da mamma o dal nostro panettiere Bernardo (si potevano già leggere, così, i tratti nascenti della mia granitica personalità). Ero disposto ai tormenti,anticipando la Mafalda di Quino su Linus: la morte ma non spinaci, prima di trangugiare un pane diverso . Un giorno a Rocca a pranzo c’era in tavola la paniccia (pronuncia molisana ‘mbanìccia) che si fa con la polenta avanzata dal giorno prima. Ricadendo dunque la paniccia nella prima categoria dei cibi idiosincratici mi sembrò normale rifiutarla e così feci, e scansai la scodella simulando anche l’atto di sbruffare. L’atto era di per se offensivo. E in più rifiutare il cibo nel 1960 rappresentava qualcosa di inaudito soprattutto fatto in casa di una persona che ti ospitava. Quando poi questa persona rispondeva al nome di zia Amelia, cioè della più agguerrita e risoluta donna della famiglia, poteva diventare per l’ospite anche pericoloso. Ci ospitava sì, ma non come insolenti spreconi. E considerate anche che zia era rimasta vedova da giovane e si affidava, per sostenere la famiglia, solamente al suo lavoro di sarta svolto in un povero paesino di montagna. Perciò, come tanti altri nel dopoguerra, per lei non sprecare la roba da mangiare era un imperativo kantiano. Ma zia voleva troppo bene a mamma per cui pur iniziando a sentire un formicolio alle mani e dentro di sé una matta voglia di togliere la paniccia e mettere proprio la mia testa dentro il piatto che avevo scansato, non disse nulla , “non mosse collo né piegò sua costa”. Rispose come doveva, senza palesare nessuna emozione, nessun avvilimento per quel nipote senza criterio. “Significa che non hai fame , e non mangi, oppure mangerai pane assoluto ” . “Ma a me piace solo il pane che fa mamma o Bernardo, quello che fai tu non mi piace; compra il pane da Pastabianca (il fornaio-panettiere di Rocca) e forse lo mangio” dissi buttando il pane in fondo al tavolo, e il fatto che non andò a finire per terra forse mi salvò la vita. Sentendo quelle parole villane e vedendo il pane rovesciato sul tavolo zia mandò a farsi benedire l’affetto, pur profondo, per la sorella, e senza pronunciare parola mi allungò uno schiaffo a mano aperta e piena sulla faccia. Che bruciore! Vero!sia sulla faccia che nell’animo per la mia improntitudine perché in un attimo capii l’errore e l’insolenza che avevo fatto. Se zia, che era la bontà fatta persona, era arrivata a darmi uno schiaffo di quel genere il mio era stato un peccato grosso. E corsi fuori piangendo per il dolore, l’umiliazione e la colpa. E da allora il pane di zia Amelia acquistò una fragranza nuova, le patate lessate che lei impastava con la farina (e forse per questo l’avevo rifiutato) divennero il suo valore aggiunto e quando ora torno nel Molise, ricerco sempre il pane con le patate – lo fa buonissimo un indiano a Guardiaregia- e della paniccia ne vado addirittura matto—
SECONDA STORIA. IL DIGIUNO DEL KIPPUR DEL MIO AMICO FRANCO
Ho un amico medico che si chiama Franco Ventura. Con lui ho condiviso il tempo del servizio militare a Firenze tanti anni fa. Franco è ebreo non praticante, io addirittura sospetto che sia ateo, ma è legatissimo al mondo yiddish, sa cantare in ebraico e presta la sua chiara e possente voce quando hanno bisogno di lui in sinagoga. E’ persona franca di nome e di fatto, solo un po’ ossessivo e facile al senso di colpa. Quest’ultima cosa secondo me è solo un vezzo, che lui persegue e asseconda quasi con civetteria perché è convinto, un po’ come Woody Allen, che sia un tratto caratterizzante e nobilitante di quel mondo Yiddish. Questo “difetto” ci tornava utile ai tempi del servizio militare perché lui era di Firenze e faceva il militare a Firenze mentre io e Teodosio, un commilitone, venivamo dal lontano Molise. Ci era facile così sfruttare il suo senso di colpa facendogli presente quel privilegio per farci sempre invitare a cena da lui. Ancora oggi, pur non essendo religioso pratica il digiuno del Kippur. Il digiuno di Yom Kippur, giorno di redenzione, che quest’anno andrà dal crepuscolo del decimo giorno del mese di Tishri – sarà il 27 settembre- fino alle prime stelle della notte del giorno seguente. E’ un tempo in cui non si tocca né cibo né acqua, ma nemmeno una goccia. E’ il giorno santo per tutti gli ebrei, giorno di redenzione, il più santo e solenne dell’anno per l’espiazione dei peccati, quindi una festa eminentemente religiosa. Gli chiedo “ Hai settant’anni e secondo me sei pure ateo, perché continui a farlo, che bisogno c’è di mettere a rischio la salute, capirei tu credessi all’espiazione dei peccati ma non ci credi. Allora perché?”. “Mi domandi perché?”, mi dice quasi stupito dalla mia domanda, “Perché rivivo in quelle ore nel mio corpo (nell’animo lo vivo sempre) quello che hanno vissuto tanti miei parenti, e amici dei miei parenti, che sono morti per fame nei lager nazisti. Perché vedo vicino a me in quelle ore gli ebrei condannati in Ucraina, in Polonia all’Holodomor cioè alla carestia pianificata da chi prova piacere a distruggere tutto in un genocidio continuo che dura da secoli. Pensa che a quei poveri contadini askenaziti veniva tolto non solo il bestiame e le scorte alimentari ma perfino le sementi cosi che anche se avessero sostituito le loro magre spalle ai buoi confiscati non avrebbero potuto più seminare, condannati alla fame, condannati a una lenta morte continuando a guardare i campi incolti. Questo posso fare per loro, lo so non serve a farne rivivere nemmeno uno, persone che non ci sono più, persone che non ho mai nemmeno conosciuto e che vivevano a più di mille chilometri da qui, ma in quelle ore ho la capacità di unirmi a loro al di fuori dello spazio o del tempo”
LA RICETTA
Paniccia Molisana, è una pietanza che si fa sfruttando la polenta avanzata dal giorno prima proprio perché nessuna parte di cibo vada perduta.
In un capace tegame fate soffriggere aglio e cipolla e un pezzo di guanciale (un etto circa), versare mezzo chilo di fagioli lessati allungati con l’acqua di cottura, unite orapi (pianticelle selvatiche della Maielle e del Matese) o spinaci o bietola o cime di rape (non la verza che la renderebbe amara) già lessati, come quantità considerate un piatto fondo pieno di verdura, aggiungete la polenta avanzata del giorno prima passata con lo schiacciapatate e amalgamate rimestando e schiacciando ancora il tutto con un cucchiaio di legno per una ventina di minuti a fuoco basso finché non diventi all’onda. E’ ovvio se non c’è guanciale si può usare pancetta o prosciutto o salsiccia.