Il ricordo del 25 Aprile, una ricetta e uno zio combattente. Elio Vernucci

Racconto il 25 Aprile con una ricetta che ricorda lo zio Emilio, che insieme ai polacchi combatté contro i tedeschi. Di Elio Vernucci

“Guarda questa gamba, cosa è secondo te?” “T’ha morso una vipera, le vipere lasciano queste cicatrici così brutte” “No, e poi sarebbe stata proprio una viperona per lasciare un segno così. Questo è un ricordo di quando, a nemmeno 18 anni, seguivo ideali e chimere, e per seguirle mi aggregai alla Brigata dei Polacchi che veniva lungo il Sangro. Io feci una corsa per raggiungerli di notte senza dire nulla a mamma e in uno scontro coi Tedeschi prima di Ancona una pallottola mi fece fare un salto come un capretto che sprilla, e fece finire lì la mia risalita d’Italia; ma poi l’ho risalita per conto mio e a Milano ci sono arrivato e lì mi sono sposato con tua zia”

Queste forse sono le prime parole che ricordo di mio zio Emilio e per me lui è rimasto sempre un giovanotto abruzzese anche quando poi di anni ne aveva sessanta e così penso sia sempre rimasto per gli occhi di zia Maria. Zio Emilio aveva visto scorrere la lenta e silenziosa carovana di macchine e autoblindo che accompagnavano il re che, fuggito da Roma dopo averla lasciata in mano ai Tedeschi di Kesserling, doveva raggiungere Ortona per imbarcarsi col suo seguito per Brindisi. Afflitto dal non poter far nulla per aiutare a cacciare i Nazifascisti e insofferente alla voce dei suoi che gli raccomandavano prudenza, insieme con altri giovani aveva raggiunto i Polacchi che, passati per l’ Inghilterra dove erano stati addestrati, si erano concentrati nel Molise formando il Secondo Corpo Polacco. Con lui c’era anche il sedicenne Carmine (Carminiello, Mino) Pecorelli divenuto poi famoso come direttore della rivista OP tragicamente morto in un agguato nel 1979 a Roma. Erano tutti giovanissimi, il più vecchio aveva 23 anni. Erano studenti, apprendisti artigiani, contadini abitanti della Valle del fiume Sangro del basso Abruzzo e del Molise (anche di Roccamandolfi).
Raggiunsero e si unirono ai Polacchi a Roccasicura. Il battesimo del fuoco lo ebbero in un luogo di tutto rispetto, un campo di battaglia solo per veterani e che sarebbe diventato tragicamente famoso in tutto il Mondo: Montecassino. A loro fu affidato il compito, oltre quello ovvio di guida, conoscitori com’erano dei monti con gambe sicure e salde come quelle dei muli, di portare in su le armi, le munizioni e i viveri ai soldati e rifare il tragitto inverso forniti di un capace e largo moschettone legato alla cintura a cui dovevano assicurare i corpi dei soldati feriti o deceduti sul campo per riportarli alla base. Gli ufficiali polacchi furono così impressionati dalla loro resistenza fisica, conoscenza dei luoghi, dedizione e affiatamento (anche con gli stessi polacchi) e pertinacia nel desiderio di sconfiggere i nazifascisti che, dopo un corso da Guastatori e Commandos fatto vicino Campobasso, costituirono per loro la 111^ Compagnia Commandos con una propria bandiera che si poteva fregiare del bellissimo motto “La Fraternità non ha Confini”. Parteciparono a tutte le azioni sia come Guastatori minando ponti sia direttamente nelle azioni armate. Parecchi morirono. Insigniti poi delle massime onorificenze militari polacche. Alcuni giorni prima di liberare Ancona zio fu ferito dai Tedeschi in uno scontro sul Monte Freddo, e lì gli fu sparata contro la pallottola che aveva causato la cicatrice che mi aveva fatto vedere. A tanti anni di distanza, nel silenzio che ci circonda in questa quarantena, che rende più forte e stridente la voce di chi continua a irridere il 25 Aprile, ho sentito più acuto il bisogno di scrivere questa storia raccontata sottovoce e quasi sconosciuta . E se devo trovare ora una parola che mi faccia ricordare la figura e lo spirito di zio Emilio e che possa individuarlo è benevolenza, sempre ben disposto non solo verso tutti ma anche nei confronti di ogni situazione ostinata e contraria. Ed è la prima figura che mi viene incontro, che mi si affaccia alla mente quando penso al 25 Aprile.
Ed è con un po’ di malinconia e con tanto orgoglio che oggi festeggio il 25 Aprile, raccontando una ricetta che mi lega a zio Emilio e a zia Maria la più piccola della famiglia di mamma.
Era per noi la zia Maria “di Milano” per distinguerla da zia Maria “di Campobasso” che era la zia buona per antonomasia e da zia Maria “dell’Australia” moglie di zio Eugenio emigrato a Sydney.

LE SOGLIOLETTE “SCAPPATE” E FRITTE
Un’estate venne a passare le vacanze da noi a Alatri il figlio più grande dei miei zii, Raffaele, che allora aveva 8 anni, stava per nascere il secondogenito Francesco. Raffaele era la disperazione dei miei zii perché era un disappetente dichiarato e a tavola schizzinoso di prima categoria. “Oggi mangiamo bene” disse un giorno mamma “Perché zia?”. “Oggi facciamo le sogliolette scappate e fritte, che sono una meraviglia. E così mamma preparò queste sogliolette scappate e fritte che a Raffaele piacquero tanto da farne una scorpacciata. Pochi giorni prima dell’inizio della scuola scesero giù da Milano gli zii e riportarono in Lombardia mio cugino. Una decina di giorni dopo zia scrisse a mamma (non avevamo telefono) chiedendo la ricetta di queste famose sogliolette scappate e fritte perché Raffaele le richiedeva e minacciava di non voler toccare altro cibo. Scriveva “Margherita mia ma come le fai queste sogliole, io compro e friggo le sogliole tutti i giorni con la farina o senza farina e non gli vanno mai bene; scrivimi per favore questa ricetta perché non si può continuare così, va a finire che un giorno o l’altro infarino e friggo Raffaele”. E così mamma scrisse alla sorella la vera ricetta delle presunte sogliole.

LA RICETTA
Prendete mezzo chilo di ALICI. Scapozzatele, togliete il “buzzo” e la lisca aprendole a libro, asciugatele e infarinatele, sgrondate la farina in eccesso e fatele insaporire qualche minuto in due uova sbattute con un pizzico di sale. Toglietele dall’uovo e friggetele in abbondante olio bollente, vanno cotte per pochissimi minuti (devono appena indorare, le alici senza lisca cuociono rapidamente). Fatele asciugare nella carta gialla, salatele e servitele caldissime con qualche goccia di limone. Fate che rimanga un po’ di uovo sbattuto perché si possono friggere piccole fette di pane, meglio se posato, dopo averle passate nell’uovo avanzato, sono buonissime e placavano la fame che le alici da sole non tamponavano. Mamma si inventò, quasi con un colpo di genio, quel termine surrettizio (sogliolette, rarissimamente aveva comprato sogliole vere) per un bisogno di giocare e inventare sempre presente in lei; ma per “scappate” si era rifatta a tanta cucina povera, come gli spaghetti con le vongole “scappate” cioè solo con i gusci, il ragù “scappato” cioè senza carne, la polenta con gli uccellini “scappati” solo con qualche pezzettino di guanciale, tutti quei termini che l’immaginazione, l’inventiva popolare, quasi cubana, ha creato per poter con soddisfazione mangiare, proprio godendo, pane amore e…fantasia.

Associazione Gottifredo

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