In questi tempi si sta in casa, almeno chi ha la fortuna di averne una. E molti hanno ritrovato o scoperto il gusto della cucina, almeno chi non ha altri pensieri per il capo. C’è venuto perciò in mente di proporre qualche buona ricetta, accompagnata da qualche buona storia. Lo facciamo, e lo faremo ancora per riempire la nostra clausura, utilizzando il libro di un amico, Elio Vernucci, medico a Piombino, molisano di nascita e di costumi, ma anche ciociaro di Alatri (una delle cento declinazioni della ciociaritudine).
Il libro, “La cucina della mia famiglia”, (Tofani editore), è giusto di tre anni fa, è un bel libro ed è perciò ancora fragrante. Noi dell”Associazione Gottifredo lo proponiamo ai nostri “followers”.
Incominciamo con questo dolce pasquale.
Carusielle (schiaccia di Pasqua). Quella che in Toscana
si chiama Stiacciata di Pasqua e, meno bene a Piombino,
Schiaccia di Pasqua, veniva fatta nel Molise da mamma, tra il
venerdì e la domenica delle Palme, in 10 -12 pagnotte. Come
per il pane se ne faceva una fornata, e le nostre pagnotte pesano dai 2 chili in su. Nel Molise, a Sepino, si chiama Carosello, in dialetto Caruséll, non so se perché è di forma circolare o perché è il pane dei bambini, i carusi. Lo mangiavamo come pane dolce a iniziare dal Sabato Santo, soprattutto con il latte a colazione. Questo panedolce mamma lo aveva visto fare, quando era molto piccola, a sua madre che era di Cantalupo (paesino dove è vissuto anche Antonello Venditti se non erro), a soli 7 chilometri da Roccamandolfi, eppure a Roccamandolfi era sconosciuto e nessuno lo preparava. E nemmeno a Colli a Volturno. Tanto è vero che mamma ne aveva dimenticato anche il nome. Pensate alla gioia e alla sorpresa, dolce anche questa, quando a Sepino mio fratello venne in casa mangiando con vera soddisfazione una gran fetta di carusielle, che gli era stata regalata da una vicina di casa. Fu per mamma proprio un incontro con la Madeleine senza aver mai letto Proust. è ovvio che subito la vicina fu subissata di domande da mamma e si prestò (per poter entrare, da donna molto ambiziosa quale era, nella categoria della buona vicina, da normale vicina come era stata fino a quel momento) a venire in casa nostra per fare il carosello e far ripercorrere a mamma la strada di una memoria di odori e di impasto. Per mamma fu come tornare un po’ accanto alla madre persa.
La ricetta seguita dalle donne molisane è molto simile a
quella dell’Artusi (che la chiama “Stiacciata alla livornese per
Pasqua d’uovo”) tranne che, nel Molise, non si usa “punto”
burro, e “punto” vino dolce, ma il procedimento è lo stesso.
Quando ci siamo trasferiti in Ciociaria, mamma ha iniziato
a fare un carosello più semplice, meno lavorato, anche perché
non avevamo più il forno per il pane ma solo quello
della cucina “economica”, usando un po’ la ricetta molisana
e un po’ quella ciociara, con meno fatica quindi. Ed era così:
LA RICETTA
Per 4 caroselli: 2 chili e 200 grammi di farina, 10 uova, 20
grammi di anice, due bicchieri e mezzo di olio di oliva che è
circa mezzo litro, settecento grammi di zucchero, 3 quadratini
di lievito di birra.
Si scioglie il lievito in un po’ di latte appena tiepido, si aggiunge
un po’ di farina finché non diventi pastella, si amalgama
e si lascia a lievitare per 4 ore, poi si fa la fontana
con la restante farina, nel mezzo ci si mettono tutti gli altri
ingredienti, zucchero, la pastella lievitata, ecc. e si lavora,
si lavora, si lavora finché non diventa liscia setosa, diciamo
finché non diventa elastica e si stacca bene dal ripiano, in
pratica quando inizia a farti molto male la schiena. Poi si
mette in un grosso tegame o zuppiera che non sia freddo,
si avvolge con coperte come un bimbo nella culla, al caldo
dove non ci siano spifferi d’aria, dopo 8-10 ore si rilavora
un’altra volta sempre stando attenti che non raffreddi (per
es. anche le mani non devono essere fredde) poi si fanno i
pani e si lascia altre 3-4 ore, quindi si infornano, uno alla
volta se il forno è quello delle cucine di oggi, per circa 30-40
minuti a 200 gradi, finché non diventano a manto di monaco,
perché prima vanno spennellati con l’uovo.
E un po’ più semplice della ricetta molisana ma richiede ugualmente tempo e fatica per la schiena, ma a Pasqua i caroselli vanno fatti per forza, magari anche uno solo, ma va fatto. Se non c’è per casa l’odore di anice e delle altre spezie e erbette, non è la Pasqua d’Uovo dell’Artusi, non è primavera.
Pasqua in casa è quell’odore, è il nitore delle stanze che si aprono all’aria nuova, è il sorriso di mamma disposto alla primavera.
Quando il mio amico Ettore, solido Analista e raffinato cultore
di letteratura e musica, veniva a trovarmi a Pasqua ad
Alatri era sempre affascinato da quegli odori di anice, cannella, cacao, miele, chiodi di garofano, e mi restituiva quella fascinazione con bella immagine richiamando alla mia memoria il Ramo di fiori di melo di Proust, facendomi felice.
(Elio Vernucci, La cucina della mia famiglia, pp. 55-56). La copertina è di Mario Ritarossi.