Il prosciutto del maiale “magrone”, specialità dei monaci di Trisulti. E la zuppa della salute.
Nel Molise la “taccariata” era il suono corale che si sentiva nel vicolo verso le sette di sera perché, nello stesso momento come in un coro, tutte le massaie “allacciavano” cioè battevano sul tagliere di legno (taccarella) lardo prezzemolo sedano (laccio) e aglio, per la maggior ricchezza del pranzo serale. E gli odori rincorrevano quelli del mezzogiorno perché c’era una fragranza di verdure fritte, verdure grigliate, verdure al forno, di peperoni o pomodori ripieni di riso, melanzane alla parmigiana. La stessa esplosione serale di verdure e legumi c’è a Alatri, a Cellole e a Pulsano.
In Toscana, la sera, la cena è silenziosa, anodina. Non si “allaccia”. Una cena spesso fredda: si usano poche verdure cotte e quasi esclusivamente insaccati e formaggi, la frittata rappresenta a volte un timido tentativo di gioiosità.
Per noi invece l’uso degli insaccati era limitato solo al tempo che durava il maiale “di casa” sacrificato per farne salsicce (che servivano soprattutto per fare un sugo eccellente) e prosciutti.
PAPA’, IL GUARDABOSCHI E IL PROSCIUTTO A META’
Papà e un Guardaboschi di Fumone compravano ogni anno, in solido, un maialino di un paio di mesi di età (del costo di cinquemila lire) e lo affidavano ai monaci di Trisulti che lo imbrancavano insieme alle decine e decine di maiali della Certosa e ce lo restituivano a fine novembre dopo averlo macellato. Muniti di enormi borsoni consegnatici da mamma, io e mio fratello chiedevamo un passaggio fino a Trisulti al camion che andava lì a prelevare il bitume da una cava confinante la Certosa e che è stata attiva fino a una trentina di anni fa. L’ultimo tratto dovevamo farlo a piedi perché al camion era vietato passare per il piazzale della Certosa e doveva raggiungere la cava attraverso una strada, poco più che una mulattiera, che attraversava il bosco, bellissima oggi per serene passeggiate. E nell’aria sottile che sembrava ancora più rarefatta per il freddo pungente che arrivava all’osso, attraverso i faggi, i cerri, le sughere, le roverelle, i cornioli e i carpini che fanno unico e bello quel bosco, ci si offriva la vista, quasi di casa, delle cime della Monna e della Rotonaria come figure di due anziane zie scivolate nel sonno, con le teste accostate e con i ferri della maglia ancora in mano davanti al camino. Oggi la parte più vicina alla Certosa è stata sostituita da un improbabile bosco di abeti. Ci presentavamo così, tra le brume del tardo autunno che lì già precipitava in inverno, ai monaci che ci consegnavano la parte che ci spettava del maiale. Tornavamo alle Cappellette e con pazienza aspettavamo il camion che tornava dalla cava e ci facevamo riportare il più possibile vicino a casa nostra, con il cuore in gola se vedevamo carabinieri o vigili. Non riuscivamo mai a scrollarci di dosso la sensazione di essere stati trasformati contro la nostra volontà in pericolosi contrabbandieri. Suggestionati dalle parole del Guardaboschi che ci raccontava di infidi personaggi che andavano da Fumone fino a Roma, usando stradelli notturni per evitare la Legge, per vendere il podracchio, cioè il puledro di asino, consegnandolo a ristoratori senza scrupoli per la gioia delle golosissime, eccentriche stelle del cinema. Dal momento che, agitati, eravamo tornati dalla Certosa, tutta la famiglia si dava da fare e lavorava solo per la preparazione del maiale: salsicce di carne e di fegato con semi di finocchio, salsicce sotto strutto, coppa, sanguinacci, cotechini e lonza. Il lavoro maggiore era ovviamente di mamma, noi eravamo semplici ausiliari. Mamma salava e teneva sotto sale per una settimana, nel posto più freddo, anche il prosciutto e la spalla che insieme agli insaccati avrebbero preso la strada di Fumone per essere collocati in casa del Guardaboschi che aveva spazio e aria buona adatta alla stagionatura. E da lì ci venivano riportati seguendo il corso della loro maturazione. Una volta ad agosto ritornò in casa nostra la spalla, gustosissima; il mese successivo arrivò quello che apparentemente e logicamente doveva essere il prosciutto. Ma per mamma non si trattava del prezioso posteriore suino. Secondo lei ci era stata consegnata la seconda spalla contrabbandandola per prosciutto.
“SONO DUE SPALLE” SENTENZIO’ MAMMA
Alla vista della spalla propagandata per prosciutto mamma iniziò “ Eh lo sapevo! Ti hanno dato un’altra spalla, e il prosciutto se lo sono tenuto loro, i S***… a loro due prosciutti e a noi due spalle, vai e fatti sentire!!”. E papà “ Ma perché dici così, ci hanno dato una spalla e un prosciutto“ “No, e lo saprò se l’ho salato io il maiale! E poi lo vedi è troppo piccolo per essere un prosciutto” “ E che vuol dire, i maiali dei monaci sono piccoli, vivono allo stato brado e pesano al massimo ottanta, novanta chili, sono come cinghiali, mangiano solo le ghiande del bosco, perciò sono buoni non come quelli allevati nel castro che arrivano a due quintali” “ Ma non lo vedi che non c’è per niente grasso”. Papà iniziava a sudare perché il dubbio che non fosse prosciutto ma spalla lui lo aveva avuto prima di mamma, ma non sapeva come venirne fuori. Pensava che il Guardaboschi (o per dir meglio la di lui consorte) poteva anche aver un po’ di ragione nel voler acquisire una maggior quantità del suino: lo aveva tenuto lei per nove mesi in casa, accudendolo e proteggendolo. Ma anche lui si sentiva offeso per non essere stato avvertito, per lo meno si sarebbe preparato meglio allo scontro con mamma. Ora dentro di se dava ragione a mamma, ma darle apertamente ragione avrebbe comportato di andare a Fumone e iniziare una disquisizione che non poteva e non sapeva anticiparsi nella fantasia se non nei suoi risvolti più drammatici. E allora la metteva sullo scientifico cercando di imbrogliare mamma e forse anche se stesso “ Non sono grassi perché sono maiali che scegliamo di una razza speciale, senza grasso si chiamano proprio Magroni” “ Si Magroni e Negroni! – replicava mamma sempre più accesa – il fatto è che a te potrebbero anche rubarti la camicia mentre cammini e diresti: bene che così ho più aria”.
Per mettersi a posto con la coscienza quando dopo parecchi giorni incontrammo il Guardaboschi papà gli disse “Però furbo tu, mi hai dato la spalla invece del prosciutto” e lo disse agitando l’indice e con un sorrisetto come avesse pescato un figliolo a rubare due ciliegie, “No Giovà, che dite! Era un prosciutto garantito! Come era di sapore?” “ Buono come il prosciutto “ E tutto finì così, e l’anno dopo da Fumone ci arrivarono di nuovo due spalle, e nessuno disse nulla.
LA MINESTRA DI RINFORZO O ZUPPA DELLA SALUTE
La zuppa si faceva usando il Lellero, quello che in Toscana viene chiamato Condiglione, cioè l’osso del prosciutto che come il prosciutto fatato di Li’l Abner di Linus non si consumava mai, “ricicciava”. Le massaie lo usavano per condire minestre e zuppe ma le più povere lo “resuscitavano” dimostrando così che del maiale non solo non si butta nulla, come tutti sanno, ma che addirittura può sfidare l’eternità. Dopo che una donna aveva fatto la zuppa, lo passava a un’amica che poteva servirsene a sua volta per condire un’altra zuppa sfruttando i carnicci, la parte di cotica, il grasso rimasto. Ora possiamo sostituire il condiglione con un pezzo di 2 etti di prosciutto tagliato a pezzettini, oppure con un pezzo di guanciale o di speck per i più raffinati.
Prendete la pentola in cui di solito si fa il minestrone, metteteci il prosciutto e un pezzetto di cotenna, un quarto di verza tagliata grossolanamente, una patata tagliata a dadini, una manciata di asparagi, una carota una cipolla, o un porro, tutto tagliato a pezzetti e fate rosolare per qualche minuto. Mettete poi due pugni di riso a testa, fate rosolare ancora per due minuti e coprite abbondantemente, almeno 4 dita sopra il riso, con acqua bollente, circa un litro e mezzo. Salate poco e fate cuocere per una ventina di minuti a pentola coperta, se si asciugasse unite acqua bollente. A questo punto aggiungeteci 2 fette (un paio di etti) di pecorino freschissimo sempre tagliato a pezzetti, fate sciogliere, riaggiustate di sale ed è pronto. Nella scodella dei convalescenti ci si metteva alla fine, nel brodo ancora bollente, un uovo che si incamiciava.