Crostata e Ratafia di Elio Vernucci

Crostata e ratafia, i miracoli di San Cosimo e le visciole di Alatri, piccole e nere come gli occhi delle belle ragazze ciociare.

A proposito del gioco grammaticale per cui Torpé si trasforma in Tropez (vedi post precedente di questa rubrica) vi voglio raccontare la storia quasi vera di un altro Santo, san Cosimo, il cui nome ha subìto l’azione di un’ulteriore raffinata procedura lessicale. Cosimo è un nome secondo me molto bello da indossare con sussiego e importanza soprattutto in Toscana dove è ancora presente il ricordo del Granduca, degno figlio di Giovanni dalle bande Nere e dove è declinato anche nel piratesco Gusmano. Per i Toscani indica il Cosmo, l’Universalità. Ed è un nome che si dà anche adesso. Due miei amici toscani, maschio e femmina, hanno dato alla luce un bambino dai delicati e serici capelli inanellati alla Benozzo Gozzoli; bimbo bellissimo e elegante e raffinato che quel nome contiene con grazia e misura.
Ma se in Toscana Cosimo è un nome che “si porta bene”, di cui andare fieri basta andare sotto il Volturno perché si appesantisca. Per esempio nella mia famiglia ci sono stati pochi Cosimo, e ci ricordavamo che si chiamavano così solo a settembre nel giorno dell’onomastico. Per il resto dell’anno erano sempre Cosimino, anche un cugino alto 1.90 e del peso di 120 chili. Oppure bleffavamo torcendolo in Cosma. Con una certa ricercatezza nell’usare, in modo truffaldino, la fonetica storica (l’epentesi in questo caso). Così, semplicemente togliendo una vocale e cambiandone un’altra, facevamo ritornare Cosimo nel grembo del carismatico e nobile Cosma il famoso Santo medico, e protettore assieme al fratello Damiano della potente lobby dei medici (e forse il Granduca si chiamava così per questo). Dimostravamo in questo modo, alla fine, tutti una certa insofferenza per quel nome Cosimo come se fosse un peso.
Ma perché?

Perché quel nome da noi è legato a San Cosimo d’Aversa che è stato un santo di tutto rispetto fino al giorno in cui accadde un fatto irrimediabile.
Dovete sapere che San Cosimo era il Patrono di Aversa e nelle campagna vicina c’era un contadino che aveva un bellissimo albero di ciliegio, frondoso, bello svettante col tronco liscio e splendente come un serpe al sole, ma che da alcuni anni non dava più frutti. Allora il contadino pensò bene di disfarsene e lo vendette per poco prezzo a un artigiano suo vicino egregio intagliatore di legno; l’artigiano, a sua volta, pensò bene di ricavarne una statua (lignea appunto) che rappresentasse San Cosimo e la regalò alla Chiesa Matrice. Dopo un po’ di tempo si sparse la voce che questa statua fosse miracolosa e molta gente andava a Aversa per chiedere un miracolo. Un giorno anche il contadino che aveva venduto l’albero, ma non sapeva nulla della sua trasformazione, andò in chiesa per chiedere come gli altri una grazia. Appena entrato il suo occhio esperto riconobbe subito, sotto l’effigie di san Cosimo, il suo vecchio ciliegio e a voce alta disse : “Te cunosco ceraso! Nun facivi cerase quando eri albero, comme puoi fa miracoli adesso, lasciamo perdere va’” e se ne andò via, seguito dagli altri pellegrini oramai sfiduciati.
Le quotazioni di san Cosimo come grande santo taumaturgico, come è facile capire, da quel momento si ridussero di molto fino ad arrivare quasi a zero quando a Aversa costruirono il più grande manicomio del Sud
e il nosocomio fu intitolato a San Cosimo. Ma diventata Aversa, per facile e prevedibile pregiudizio popolare, sinonimo di manicomio, il toponimo, d’Aversa, non stava più per un sicuro equilibrio mentale del Santo. E così, per scrupolo di coscienza, gli Aversani come per paura di essere contagiati da quell’accostamento sostituirono il Santo, nella prestigiosa carica di Patrono della città, con San Paolo.

Di cerase, ciliegie, ce ne sono di tanti tipi, le Duracee di Cesena, le Marchiane, le Amarene, le Ferrovia di Puglia. Alatri va fiera per una ciliegina piccola leggermente dolce ma insieme amarognola e asprigna, nera nera come gli occhi delle più belle ragazze ciociare. Dal nome suggestivo, scattante e ipnotico e pericoloso: vìsciole, come quegli occhi su cui si può scivolare.
E a Alatri le vìsciole (con l’accento sulla prima i) vengono usate soprattutto per due cose, la Ratafià e la Crostata di vìsciole.

LA RATAFIA
La ratafià. Il nome è forse di origine francese. Sono sicuro di un film con Gina Lollobrigida ambientato in Francia, di cappa e spada, in cui lei usava questa parola ma non ricordo il titolo. A Alatri si chiama Rattafìa e poiché le vìsciole si mettono a macerare io ho pensato che possa derivare da rattare = grattare o scorticare. In estate venivano a vendercele in casa ragazzine di campagna a 10 lire il bicchiere, non si pesavano. Con un panno si toglieva la polvere e, senza nemmeno lavarle, non c’erano anticrittogamici sulla frutta, si mettevano in una damigianina con la bocca grande con aggiunta di zucchero e vino bello corposo rosso che le macerasse. Su tutti i davanzali di Alatri faceva bella mostra di se per lo meno una damigianina che aspettava buona buona la fine di luglio covando la rattafia al sole. Il rapporto tra alcool, quantità di frutta e zucchero variava da famiglia a famiglia. Noi facevamo così. In una damigiana di 10 litri con l’imboccatura larga si mettevano 5 chili di vìsciole senza picciolo con 5 litri di vino rosso e mezzo chilo di zucchero e una stecca di cannella e un bicchiere di alcool e la damigiana si metteva al sole per 40 giorni, poi si filtrava e basta. Qualcuno aggiungeva anche una manciata di mandorle.

LA CROSTATA DI VISCIOLE
Arrivati a primavera la marmellata fatta un anno prima e tenuta in dispensa va finita, sennò rischia di andare a male e nel periodo che stiamo vivendo di clausura a maggior ragione bisogna dar fondo a quello che abbiamo in casa senza dovere per forza fare incetta di alimenti al supermercato.
Per la crostata si fa la pasta frolla, impastando 3 etti di farina con 6 cucchiai di zucchero 1 etto di burro (se non c’è burro usare 8 cucchiai di olio di semi) 2 uova intere + un tuorlo, la scorza grattugiata di un limone, mezza bustina di lievito per dolci, si lavora il tutto per poco, solo il tempo per farne una palla. Si metterla mezz’ora in frigorifero, si stende col matterello fino a un’altezza di tre mm., con la pasta stesa si fodera l’interno di una tortiera imburrata e infarinata di circa 28 cm di diametro, ci si spalmano 400 grammi di marmellata di visciole, ma deve essere stata fatta in casa perché se dovete comprare la marmellata tanto vale che comprate la crostata, col resto della pasta fate delle strisce larghe un cm che disponete a “cancellata” sulla marmellata. In forno a 180 gradi per 40 minuti. Spolverarla di zucchero a velo per me significa rovinarla.

Gira su Internet un video molto breve, questo ne accresce l’interesse, in cui si vede una ragazza che nel bagno si sta agghindando e truccando; una voce di donna con apparente accento lucano, probabilmente di colei che la sta riprendendo domanda “ma cosa ti trucchi a fare se non si può uscire” E la ragazza serafica ma decisa risponde “vado a fare due passi nel ristorante della mia cucina” Non è una sciocchezza, è una cosa importante. I nostri colleghi fisiologi che hanno scoperto i neuroni specchio ci hanno edotti sul fatto che quando si assiste a una scena umoristica si attivano i neuroni specchio che gestiscono le aree del buon umore e del riso dello spettatore come se anche lui stesse ridendo. Perciò prendiamo una fetta di crostata e un bicchiere di rattafìa e andiamo in terrazzo o in giardino (per i fortunati che li posseggono) e se non li abbiamo facciamoci due passi e andiamo in cucina e trasformiamola in un’osteria di campagna, in una fraschetta: io ho fatto così la mia gita di questa Pasquetta.

 

14 aprile 2020

Associazione Gottifredo

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