Tutti noi siamo Matteo – di Antonio Poce

Chi è Matteo?
Qui totum inspicere non potest tamquam deformitate partis offenditur quoniam cui congruat et quo referatur ignorat. Chi non sa vedere l’insieme viene turbato dall’apparente incongruenza della singola parte, perché non sa a cosa sia adatta e a cosa si riferisca.

(Agostino, De civitate Dei 16, 8. 2)

La citazione di Agostino riassume la necessità che lo sguardo (il nostro come quello dell’artista) percepisca contestualmente il singolo dettaglio e la totalità dell’opera.

La Vocazione di San Matteo (Roma, San Luigi dei Frncesi) è il capolavoro che più di altri lo esige. Intorno ad essa si è scatenata una delle più lunghe e inconcludenti controversie mai allestite nel campo della storia dell’arte. Circa 70 anni di dispute, con profluvi d’inchiostro e di fieri sudori accademici, per risolvere il dilemma di chi, tra i cinque personaggi seduti, fosse il destinatario della chiamata. Diatriba inutile in quanto, come cercherò di dimostrare, la chiamata è rivolta a tutti i cinque, ma ancor più a coloro che guarderanno il quadro nei secoli a venire. Caravaggio, e soprattutto la sua dottissima committenza, in sostanza ci dicono che: siamo tutti  Matteo.L’irruzione del divino nella vita di Matteo è il “tema”, il nodo concettuale dal quale scaturisce la struttura compositiva del quadro. Gà in fase progettuale il Merisi (e il cenacolo di intellettuali al quale egli fa riferimento) compie una scelta profondamente qualificante e, se si vuole, rivoluzionaria: quella di non rappresentare l’evento istantaneo della folgorazione, ma il tempo dilatato lungo il quale l’uomo Matteo matura la sua risposta alla chiamata di Gesù. Emerge il pensiero di Agostino dallo sfondo culturale che ha influenzato la progettazione dell’opera. La Vocazione, ovvero la risposta alla chiamata, è un processo di tale complessità da non poter essere circoscritto in un solo momento. Più coerentemente allora egli rappresenta il lungo, difficile percorso di una coscienza dubbiosa alla ricerca della Verità.

Matteo, in sostanza, accoglie la chiamata perché in qualche modo l’ha perseguita nell’intero arco della sua vita. E il dipinto sembra registrare tale processo di conversione nella circolarità del tempo, riscontrabile nella collocazione in cerchio dei cinque personaggi e nelle cinque età diverse degli stessi. Come dire: ogni mutamento è il risultato di una lunga e faticosa evoluzione, secondo traiettorie quasi mai rettilinee ed influenze incostanti e del tutto eterogenee.
Quel gesto della mano di Gesù (omaggio inequivocabile al Maestro della Sistina), timidamente imitato da Pietro, non è rivolto ad ‘uno’, ma indica e interroga l’intero gruppo. E quel gruppo  rappresenta l’ umanità intera.
Il valore universale dell’opera non può essere quindi diminuito nella trama di una narrazione singola, o addirittura  ‘istantanea’.  Il ruolo poi di ‘fotografo’, affibbiato immancabilmente al Merisi, è uno dei tormentoni più noiosi della sterminata saggistica a lui dedicata, per il quale occorrerà prima o poi definire una sana-toria, se non addirittura un’amnistia, per non parlarne mai più.
Caravaggio ama la “lentezza”, intesa come qualità calviniana. Predilige il tempo aumentato dei mistici e della conoscenza profonda.

Cita, direi con devozione, il suo omonimo Buonarroti del Giudizio Universale. La mano di Gesù è copia della mano di Ada-mo, anche se la direzione lascerebbe pensare a quella di Dio. Co-me a voler sottolineare che il Messia è vero Uomo, oltre ad essere vero Dio (Concilio di Efeso del 431), segnando la complessità teolo-gica di un’opera che perciò è nuova e ortodossa ad un tempo.
Indicando il gruppo disposto in cerchio, la mano del Maestro traccia il tempo lungo il quale è scandita la vita del pubblicano Matteo. Pietro è la Chiesa (unica interprete del messaggio di Cristo, come sancito dal Concilio di Trento), e la sua mano lo riafferma convergendo nello stesso centro indicato dal Maestro.
E parla, Pietro. Perché, sia chiaro, questa è un’opera mul-timediale. Anzi, è una installazione “interattiva”. Se lo guardiamo bene possiamo anche ascoltarlo mentre va ripetendo il messaggio del Maestro: «Si, si, tutti, … tutti quanti».
La Grazia, che pervade la vita dell’uomo, in quest’opera è sottratta alla rappresentazione dell’evento istantaneo per essere proiettata sul piano del progetto di Fede che abbraccia l’intera esistenza.
I cinque personaggi rappresentano anche cinque possibili risposte (dall’adesione stupìta, alla totale freddezza), le quali impegnano costantemente l’uomo Matteo ad una scelta.
Una vocazione permanente, dunque, che esige risposte nette e riconfermate in ogni singolo giorno della propria vita. Non esclu-dendo in tutto questo il rischio del rifiuto o dell’indifferenza.
La struttura del dipinto è a forma di croce perfettamente centrata. Croce di Cristo che divide in due la storia dell’umanità e ne cambia il destino. Il suo asse verticale, tracciato dalla panca di legno e dallo scuro della finestra, è il centro visuale, ma anche simbolico e teologico, del quadro.

La luce che illumina i personaggi proviene da una finestra invisibile che è alle spalle di Gesù e di Pietro. Mentre quella frontale simboleggia una razionalità che, priva di luce propria,  partecipa alla rappresentazione in forma ancillare. Infatti la funzione dello scuro (la parte orientabile della finestra), nell’asse verticale della Croce, evidenzia il potere di discernimento tra luce e tenebre assegnato alla Chiesa.

La base della Croce mostra, intagliato nella panca, il segno della Chiesa-Madre (una cupola disegnata in forma di mammella), ovvero: la Chiesa sostiene nella Fede ed è via di salvezza in quanto fondata sull’annuncio della Parola che ha diviso in due la storia. La spada, immediatamente sopra, ne simboleggia il valore sovversivo. “non sono venuto a portare una pace, ma una spada” (non a caso: Matteo, 10,34).
Nel mondo giudaico la spada veniva citata in quanto simbolo di mutamenti profondi. In questo caso per sottolineare la potenza della Parola divina: “Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi  dico, ma divisione” (Lc 12,51). Infatti la Parola, come la spada (in  asse con lo scuro), divide la luce dalle tenebre.

Matteo”, è chiaro, rappresenta l’uomo contemporaneo. Baste-rebbe osservare la diversità dei costumi tra i cinque personaggi seduti (datati 1600) e quelli di Gesù e Pietro (della loro epoca). Qualche studioso ha parlato di “incongruenza”. Un giudizio che lascerei affettuosamente cadere, perché uno scivolone può capitare a tutti.

Richiamerei anche qui l’attenzione sul «prima» e «dopo», il cui discrimine è segnato non casualmente dall’asse centrale della Croce e della spada. Come dire: amministrando i Sacramenti, la Chiesa trasmette, insieme alla Vocazione, anche la Grazia ne-cessaria per accoglierla (la luce che arriva dalle spalle di Gesù e di Pietro). La figura di Pietro, che pare sia stata aggiunta, conferma il fatto che la sua presenza è «fondamentale» («Tu es Petrus et super hanc petram edificabo Ecclesiam meam»), in quanto completa l’impianto teologico dell’opera rappre sentando la cen-tralità della Chiesa .

Il pensiero di Caravaggio è chiarissimo: tutti noi siamo Matteo, quindi ciascuno di noi deve rispondere a quella “chiamata”.

E’ una Vocazione universale, nella quale si concretizza la proposta radicale ed estrema del Cristianesimo: amare il prossimo più di noi stessi, per scardinare per sempre dal mondo il seme della violenza.

Un invito così sconvolgente nella sua potenza eversiva non può non suscitare incertezze, perplessità, dubbi, ripensamenti e anche rifiuti. E Caravaggio vuole rappresentare esattamente questo: la profonda umanità del dubbio e la complessità di ogni cammino nella fede cristiana.

Ciò emerge dal quadro, ovvero dall’unico documento che noi possiamo considerare autentico e completo. Occorre semplice-mente leggerlo con l’intelligenza del cuore.

L’articolo è visibile sul sito: www.culturacommestibile.com

Associazione Gottifredo

Torna in alto